La superficie destinata alla produzione di cereali bio è in costante aumento in Italia. A dirlo sono i dati per l’anno 2020 elaborati dal SINAB (Sistema di Informazione Nazionale sull’Agricoltura Biologica) per il Mipaaf, che ci collocano primi in Europa, seguiti da Francia e Germania. Nel 2010 nel nostro Paese gli ettari destinati alla produzione biologica erano 194.974, nel 2019 sono diventati 330.384, con un aumento del 69,4%.
Aumenta anche la domanda: nel 2020 la crescita è stata del 2,7%. A trainare i consumi del comparto sono state le farine e le semole, che da sole hanno compiuto un balzo del +23,6%.
Eppure questo primato non incide sulle importazioni di cereali, che ancora rappresentano oltre il 30% di tutti i prodotti biologici che arrivano in Italia dall’estero. Grano duro, grano tenero, mais, riso, sono i cereali maggiormente importati, a cui si aggiunge un ulteriore 19,5% di importazioni costituite da colture industriali – pannello di soia, semi di girasole e di lino, arachidi.
I problemi e le prospettive delle filiere cerealicole bio e locali sono stati al centro di un convegno tenutosi lo scorso giugno on-line, promosso da CAICT – Coldiretti, da titolo “Agricoltura biologica: aspetti tecnici e opportunità di sviluppo delle filiere cerealicole locali”. Vi hanno preso parte agricoltori, rappresentanti delle istituzioni, del mondo della ricerca e del mercato. L’incontro si è focalizzato su alcuni aspetti tecnici del ciclo produttivo e sulle opportunità di sviluppo.
Dietro questo scenario infatti, c’è una fetta di agricoltura italiana che cresce, numeri alla mano, nonostante serie difficoltà. Chi coltiva cereali bio compie una scelta aziendale precisa, dai costi spesso alti, che non consente improvvisazioni. Le dimensioni dei mercati di riferimento dettano strategie e investimenti, così come le condizioni dei terreni e delle sementi. Oggi, per chi produce cereali bio, si impongono riflessioni e tecniche che hanno tempi e bisogni diversi da quelle commerciali.
Stefano Benedettelli insegna al Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agrarie dell’Università di Firenze. Da anni si dedica alla selezione delle varietà di cereali e in occasione dell’incontro ha ribadito un principio chiave: applicare solo metodi di coltivazione nel rispetto dell’ambiente. Sembra banale, ma ne va della stessa vitalità del suolo.
L’obiettivo è di incrementare la base genetica delle varietà e delle popolazioni adattate all’ambiente di coltivazione. Più biodiversità equivale a terreni più sani e quindi più fertili. La filiera corta va sostenuta proprio per ottenere un prodotto qualitativamente superiore, completamente “tracciato” con i dovuti controlli igienico sanitari.
Il costo dei semi certificati incide significativamente sulle scelte di chi coltiva, e spesso, proprio per risparmiare, viene riprodotto il seme in azienda per qualche anno. “Ma è una pratica che ha dei rischi”, sono state le parole di Benedettelli, “perché i semi prodotti non sono calibrati né valutati a livello fitosanitario e possono trasmettere e malattie. Per produrre sementi bisogna coltivare con quella finalità e con tutti i controlli sulla purezza genetica e le condizioni fitosanitarie”.
“Un tempo il terreno era costituito da circa il 3% di sostanza organica umificata, oggi quando li analizzo non arrivano all’1%”. È ancora Benedettelli a dare la misura dell’urgenza: “Bisogna rispettare il terreno, coltivare per il terreno e non per la coltura. Una volta che il terreno è pronto e vivo, ringrazierà con le produzioni”.
Coltivare cereali in biologico con gli attuali terreni è una sfida produttiva. La sostanza organica deve recuperare, le rotazioni devono essere pensate in questa funzione, così come i sovesci, le concimazioni organiche.
A fronte di un mercato che accoglie scarsamente le colture di rotazione, spesso le aziende agricole si trovano a fare scelte difficili, tra colture “a perdere”, ma con una prospettiva di suolo più fertile, o ricavi immediati, con coltivazioni che hanno sbocchi di mercato sicuri, ma che consumano ulteriormente il terreno. L’auspicio è che si cerchino di facilitare, a livello commerciale, anche le colture da rinnovo.
Le aziende che producono cereali bio, specie le più piccole, chiedono di progettare forme di stoccaggio e essiccazione a loro misura, per non perdere l’unicità del prodotto. Una sfida logistica per le piccole imprese che vogliono inserirsi in questo mercato, che tende invece ai grandi conferimenti.
C’è infine la questione dei prezzi. “Fino al pochi anni fa il valore dei prodotti biologici era quasi il 50% in più rispetto ai convenzionali. Ora i prezzi in alcuni casi sono quasi equiparati, o il vantaggio si è ridotto moltissimo”. A dirlo è Andrea Pasini, manager del settore cerealicolo di CAI (Consorzi Agrari d’Italia), che ha sottolineato quanto sia necessario “restituire il valore della cerealicoltura biologica”.
“Con i contratti di coltivazione è possibile garantire un buon livello remunerativo e il sicuro collocamento del prodotto”, ha detto. “Occorre partire dal seme certificato per garantire qualità. Ci sono le deroghe, ma per arrivare a un percorso completamente tracciato. Il seme certificato è un costo destinato ad abbassarsi se tutte le aziende bio lo utilizzeranno”.
La raccomandazione è che “almeno il 60-70% di quello che va messo in campo sia già vincolato da contratti di coltivazione. Solo così si tutelano i produttori”.
Iniziativa finanziata dalla sottomisura 1.2 nell’ambito del bando PIF AGRO 2017 del Programma di Sviluppo Rurale 2014 – 2020 della Regione Toscana (fondi FEASR)